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L’austerità espansiva e i suoi oppositori

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Austerity vs Stimulus: The Political Future of Economic Recovery, a cura di Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Palgrave Macmillan, 178 pagine: http://www.palgrave.com/de/book/9783319504384

 

L’austerità ha fallito ed è tempo di bilanci. Ma è soprattutto giunto il momento di chiedersi perché, nonostante le politiche di restrizione fiscale abbiano sortito effetti più che negativi sul corso della crisi che ha travolto le economie occidentali (e quella europea in particolare), la discussione tra quanti ne sostengono l’efficacia e i fautori di posizioni keynesiane sia più accesa che mai. Secondo Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli , entrambi storici dell’economia, è importante comprendere il motivo per cui l’idea di austerità si è andata affermando in termini ideologici, arrivando a forzare l’interpretazione degli andamenti economici di volta in volta osservati pur di giustificare l’adozione di misure draconiane. E’ questo il tema di fondo che anima Austerity vs Stimulus, un’agile raccolta di articoli (in parte originali e in parte ripubblicazioni di precedenti uscite in volumi o da fonti giornalistiche) attraverso cui Skidelsky e Fraccaroli intendono mostrare come l’idea di austerità abbia acquistato sempre maggior forza soprattutto in virtù di un messaggio politico divenuto centrale per i partiti di centro – destra, che hanno dominato la scena politica europea da prima e lungo tutto l’arco della crisi. L’austerità si sposa infatti con la visione che la crescita economica debba essere trainata dal settore privato e che a tal fine l’intervento pubblico non interferisca con i meccanismi di “autoregolazione” del mercato.


L’austerità come tale non sarebbe tuttavia diventata un così evidente oggetto del contendere se la crisi del 2007-2008, innescata dallo scoppio della bolla immobiliare e dalle insolvenze collegate ai mutui sub-prime negli Stati Uniti, non si fosse riversata tanto pesantemente sui bilanci pubblici per arginare il contagio finanziario provocato dai fallimenti bancari facendo esplodere i “debiti sovrani”. Questo passaggio è anche cruciale poiché mette in luce come il ruolo dello Stato sia più precisamente inteso in subordine al mercato ammettendo (di fatto) che l’intervento pubblico possa entrare in campo in maniera consistente se lo scopo è quello di “salvare” il mercato. La scelta di aprire il volume con uno scritto di Wolfgang Streeck, che richiama gli antefatti della crisi raccordandoli con i conflitti distributivi generati dal capitalismo, risulta dunque di straordinaria efficacia. Da questo momento in poi il lettore è reso consapevole delle profonde contraddizioni che attraversano le correnti posizioni “neoliberali” mentre viene demistificata una classica idea di laissez faire che pretende di appellarsi all’ipotesi che i mercati siano efficienti. Da questo momento in poi il confronto tra le due tesi contrapposte, che l’austerità serva per il superamento della crisi ovvero che abbia effetti ulteriormente depressivi sul ciclo economico, si fa strada con un ritmo serrato, risalendo dapprima alle radici dell’originario dibatto tra Keynes e Hayek del 1932(con il primo intento nel sottolineare i limiti della spesa privata e il secondo nel rilevare la dannosità della spesa pubblica che nel migliore dei casi induce uno spiazzamento di quella privata per effetto di un aumento dei tassi di interesse); per ritornare immediatamente alla nuova narrazione “neoliberale” che individua nel consolidamento fiscale, ossia nella riduzione del debito pubblico attraverso drastici tagli di spesa pubblica, la chiave della ripresa.
Gli articoli che successivamente si alternano nel sostenere i benefici delle politiche di austerità e d’altro canto a mostrarne gli effetti nefasti, ci mettono con tutta evidenza di fronte alla potenza della dimensione ideologica che accompagna l’idea di austerità dall’inizio della crisi ad oggi. I riferimenti principali sono individuati nei lavori della “scuola bocconiana”, e in particolare nelle argomentazioni di Alesina, e nelle elaborazioni di Reinhart e Rogoff, la cui straordinaria diffusione si deve anche all’offerta di prove fattuali sul rapporto di causazione tra diminuzione del debito pubblico e aumento del tasso di crescita del Pil. Peccato, come sottolinea Krugman, che in queste stesse evidenze siano state da più parti rilevate delle falle. Ma la questione, ancor più cruciale, va colta seconda Krugman in un ulteriore aspetto della diatriba sull’austerità. Infatti sul piano della teoria queste posizioni non hanno avuto modo di radicarsi e perfino i libri di testo, decisamente incardinati nell’ortodossia economica, non accolgono l’austerità come un’opzione di policy nel corso di una recessione. “Il momento giusto per l’austerità al Tesoro è l’espansione, non la recessione” scriveva Keynes nel 1937 e questo punto di vista, congiuntamente alla considerazione che le politiche monetarie espansive (di qualunque tipo) non possono essere assunte come una valida alternativa durante una recessione, non sembra essere messo seriamente in discussione. Tuttavia nell’intricato quanto drammatico contesto della crisi economica è la politica a prendere il sopravvento, in un misto di false credenze (prima fra tutte quella che il bilancio statale sia assimilabile a quello di una famiglia) e di spinte conservatrici che originano da quella stessa tensione distributiva tra lavoro e capitale che ha portato al crollo del 2008. L’austerità si trasforma così in una estrema quanto perversa difesa degli interessi corporativi dei capitalisti, poiché riducendo il perimetro della spesa pubblica può dare spazio ad elevate riduzioni fiscali alle imprese – rimarca Krugman.
Le politiche fiscali espansive sono l’unico argine a un peggioramento della crisi e le uniche in grado di far ripartire la crescita economica, sostiene dunque dal fronte keynesiano Skidelsky, aggiungendo che sono anche le uniche a permettere di correggere gli squilibri distributivi a favore dei redditi da lavoro e di garantire così una ripresa economica più stabile. Agire sulle politiche fiscali permette inoltre di incidere sui limiti rilevati per l’attuale modello di sviluppo economico, che ha dissipato le risorse disponibili e aggravato il degrado ambientale, stimolando una domanda che promuova la riconversione ecologica del sistema produttivo.
Sul versante delle posizioni pro-austerità non mancano tuttavia argomentazioni dal carattere vagamente keynesiano che danno conto di come gli esponenti di questa controparte abbiano chiaramente sentito la necessità di dare forza alle proprie ragioni appellandosi a riferimenti che per la teoria keynesiana sono essenziali. E’ questo uno snodo molto importante del volume di Skydelsky e Fraccaroli, poiché se l’”ortodossia” macroeconomica non ha in se’ i presupposti per giustificare le politiche di austerità in tempo di recessione e se le posizioni keynesiane rischiano di trovare riscontro nei fatti, la difesa dell’austerità potrebbe andare incontro a una clamorosa sconfitta. Cosa di meglio, allora, se non tirare in ballo la questione della fiducia degli operatori del mercato collegandola ai livelli del debito pubblico? Maggiori i livelli di debito pubblico, minore sarebbe la fiducia che gli operatori riporrebbero sullo stato di salute di un paese e minori, di conseguenza, gli investimenti che sarebbero disposti a intraprendere. Con la “fata fiducia” –espressione efficacemente introdotta da Krugman – entra definitivamente in scena l’allegoria dell’austerità, che ne consacra il mito; talvolta spaesando perfino l’avversario, come confessa Skidelsky. Per questo è bene mettere in chiaro che se una politica fiscale restrittiva è manifestatamente impropria e nociva lo sarà indipendentemente dalla fiducia (“a lack of it cannot cause a bad policy to have bad results, any more than jumping out of a window in the mistaken belief that humans can fly can offset the effect of gravity”.) Lo scenario è d’altra parte ben più complesso e il legame tra aspettative e livello del debito pubblico come immaginato dai sostenitori dell’austerità non sembra reggere neppure alla prova dei fatti. C’è invece molto di più da scavare nell’imperfetta costruzione dell’unione monetaria e nelle politiche che la disciplinano, fondamentalmente centrate – di nuovo con tratto fondamentalmente ideologico – più sull’idea di “punizione” che su quella di mutua assistenza nel momento in cui subentra una crisi finanziaria, come emerge dall’articolo di De Grauwe. Se solo si entrasse in questo ordine di idee quella che nel successivo articolo di Blanchard viene additata come “schizofrenia” dei mercati, che plaudono agli annunci di consolidamenti fiscali per poi punire i paesi che li mettono in atto non appena gli esiti sulla crescita sono recessivi, non apparirebbe tale. Ma la “schizofrenia” di cui ci parla Blanchard è ancora di più il sintomo che i negativi esiti economici delle politiche di austerità, hanno cominciato a scalfire granitiche certezze.
Tutto bene, dunque? Niente affatto, e nonostante lo stesso Fondo Monetario Internazionale, di cui lo stesso Blanchard è stato capoeconomista tra il 2008 e il 2015 (dimettendosi), abbia riconosciuto l’effetto depressivo delle politiche restrittive di bilancio dichiarando apertamente l’errore di aver ampiamente sottostimato i moltiplicatori fiscali, il “mito” dell’austerità continua a imperversare.
La storia delle politiche di austerità attuate nel Regno Unito diventa così un caso paradigmatico, del quale Skidelsky e Fraccaroli danno estesamente conto nell’ultima parte del volume, documentando il fitto dibattito politico-economico che ha accompagnato gli eventi nel loro svolgersi. L’occasione è preziosa per ribadire il ruolo giocato da una distorta idea di fiducia, che in una presunta chiave keynesiana, dovrebbe assegnare un valore taumaturgico all’idea stessa di austerità. Nel replicare ai diversi interlocutori pro-austerità (Cable e Ferguson) è importante dunque per il fronte keynesiano degli economisti Skidelsky e Blanchflower riportare l’attenzione sul cuore del messaggio keynesiano, al fine di sgombrare il terreno da ogni possibile ambiguità circa gli effetti nocivi di politiche fiscali restrittive in un periodo di depressione economica ed evitare che si continui a spostare il discorso su possibili “rimodulazioni” temporali del consolidamento fiscale su periodi più lunghi, quasi si tratti del dosaggio sbagliato di una medicina buona. “Curati della disoccupazione e il bilancio saprà badare a se stesso” sosteneva infatti Keynes, mentre la logica dei fautori dell’austerità è tutta all’opposto, trasformando il bilancio in obiettivo della politica economica da strumento quale dovrebbe essere, e attribuendo al concetto stesso di debito pubblico un valore intrinsecamente negativo connesso (erroneamente) alla logica dell’economia del “buon padre di famiglia”(Graeber, Chang et al).

Resta quindi davvero incomprensibile come, nonostante tutto, l’austerità continui ad essere il faro di tutta la politica europea. La risposta deve essere tuttavia ricercata in una “ragion politica” (Krugman e Blyth), che rappresenta non solo – come visto – il filo conduttore dell’intero libro, ma anche il nodo su cui tornare a riflettere in conclusione. Skidelsky e Fraccaroli sono comprensibilmente ancora pessimisti e a tutt’oggi il quadro europeo non sembra presagire un cambio di marcia ne’, soprattutto, sono oggetto di discussione correttivi all’impianto delle politiche europee ispirate alla disciplina del fiscal compact e ad un ruolo della Banca Centrale (europea) tutt’al più “calmieratore”, sia che si tratti del controllo dell’inflazione come da mandato istituzionale, sia che si adottino politiche “atipiche” di “manutenzione” della liquidità del sistema bancario (come nel caso del quantitative easing) per stabilizzare il ciclo economico. Tuttavia è importante riconoscere il valore dell’analisi critica che questo volume ci offre proprio all’indomani di un “risveglio” quasi brusco del dibattito economico (sopito da anni) intorno al ruolo delle politiche macroeconomiche sull’onda montante della crisi internazionale; un dibattito che ha riaperto il confronto tra la scuola keynesiana e quella neoclassica, caposaldo di un mainstream più che trentennale che non ha per lungo tempo incontrato avversari lungo il suo cammino, “assorbendo” la prima e costruendo col passare del tempo un paradossale “consenso culturale” intorno alle posizioni neoliberiste. E’ di qui che bisogna ripartire.

 


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